Sentiamo spesso parlare di «pentiti» di mafia. In pochi però conoscono i «testimoni di giustizia», così diversi dai «collaboratori» – come vengono chiamati i pentiti in gergo tecnico -, ma fino a poco tempo fa confusi dalla stessa legge. I testimoni sono normali cittadini che non hanno nulla di cui pentirsi, perché non hanno mai commesso reati. Hanno solo assistito o ne sono a conoscenza e spontaneamente lo denunciano. Oggi sono 71 che, tra cambi d’identità, paura e soprattutto coraggio, aiutano i magistrati a fare chiarezza, rinunciando alla propria vita normale.
Questo pomeriggio due testimoni di giustizia saranno a Catania per raccontare la loro esperienza. «Storie che non devono scoraggiare», spieganno dall’associazione antimafia Rita Atria – organizzatrice degli incontri -, «ma farci assumere degli impegni e capire il valore della cittadinanza attiva e responsabile». Per incontrarli avremo due occasioni. La prima alle 16.30, alla libreria Selinoon (piazza Vittorio Emanuele III, 8), dove Angelo Greco – avvocato, docente e giornalista – presenterà il suo libro Tra l’incudine e il martello, inchiesta sul mondo dei testimoni di giustizia, proprio insieme a due di loro: Piera Aiello e Ulisse. Più tardi, alle 18.00, nella sala Sebastiano Russo della sede della CGIL (via Crociferi 40) si discuterà della Normalità della Testimonianza sempre con Piera e Ulisse, stavolta accompagnati da Nadia Furnari – dell’associazione Rita Atria e autrice del primo dossier in Italia sui testimoni di giustizia – Graziella Proto, direttrice della rivista Casablanca e
Carmen Valisano, giornalista del magazine on line Step1. Ad accompagnarli sarà l’attrice Daniela Morozzi, autrice di un docufilm sui testimoni di giustizia di cui verrà proiettato in anteprima un trailer di cinque minuti.
Per la sicurezza di Piera e Ulisse, durante gli incontri non sarà possibile fare foto o registrare video né audio. Perché entrambi vivono in località segrete e sono stati costretti ad abbandonare la loro vecchia vita. Un sacrificio per la legalità che ci racconteranno questo pomeriggio.
Piera Aiello è la cognata di Rita Adria, anche lei testimone di giustizia, morta suicida dopo l’omicidio del giudice Paolo Borsellino. Lo «zio Paolo» come lo chiamava, l’unico in cui avesse fiducia. Piera era la moglie di Nicola Atria, fratello di Rita e figlio del boss di Partanna – in provincia di Trapani – Vito Atria. Ma Piera non proveniva da quella cultura: pochi mesi prima che suo marito venisse ucciso davanti ai suoi occhi, nel ’91, aveva provato il concorso per diventare agente di polizia. Da lì all’aiuto alla giustizia con la sua testimonianza il passo è stato brevissimo. Ma sono iniziati anni di carte, burocrazia, paura. Un cambio d’identità, una nuova vita, messa a repentaglio nel 2009 dalla rivelazione del suo nuovo – e segreto – luogo di residenza. E’ stato così che Piera ha anche appreso di non essere più nel programma di protezione. Solo mesi dopo il ministero di Giustizia sarebbe tornato sui suoi passi, conferendole di nuovo lo status di testimone di giustizia e la conseguente protezione.
Un minimo riconoscimento che Ulisse – questo è il suo nome in codice – non è nemmeno mai riuscito a ottenere. Nel ’90 assiste a un omicidio in una stazione di servizio sulla tangenziale di Napoli: è insieme alla moglie e tenta di evitare l’uccisione dell’uomo, ma non ci riesce. E va a sporgere denuncia dai Carabinieri. Ma non sa che il killer che ha denunciato è a capo di una cosca della camorra. Ulisse e la moglie sono soli, nessuna scorta, nessuna protezione, solo minacce. Anni di burocrazia e appelli allo Stato non hanno modificato la situazione. Anche oggi, più di dieci anni dopo, Ulisse ha dovuto cambiare vita da solo, dopo aver perso il lavoro e con la moglie che intanto si è ammalata. A cambiare le cose però potrebbe arrivare tra qualche settimana una sentenza, dopo che Ulisse ha fatto causa allo Stato.
[Foto di Gigi Murru]